Viaggio nel paese dove si esprime il diffuso senso civico dei suoi abitanti
Stavo pensando a cosa scrivere sul Giappone, Paese dacui sono tornato da poco, come mi chiedeva Werther. Ovviamente sto parlando di Werther Gorni, il direttore di questo settimanale.
Ero perplesso. Non è un posto in cui vai per la natura. Non siamo in Namibia, e gli unici animali vivi li vedi a Nara, dove ogni giorno centinaia di cervi shika assaltano pacificamente i turisti alla ricerca di un biscotto. La fioritura dei ciliegi, la “sakura”, molto sentita e prossima a concludersi, si esaurirebbe in tre righe. Inutile anche spiegare cosa sono i ramen o il sushimi: li mangiamo da una vita pure qui. Idem per l’avanzata tecnologia: l’elettronica, i cartoon, le mille luci delle città o i confortevoli shinkansen, noti anche come “treni proiettile”. Per i templi, mi limito alla differenza tra i buddisti e gli shintoisti.
Ero preso da questo blocco quando, passeggiando in bicicletta sui viali mantovani, mi si è accesala lampadina. E’ successo pedalando in viale Risorgimento, dove ogni trenta metri sulla pavimentazione sono stampati, da una parte una bicicletta, dall’altra un pedone. Ho detto viale Risorgimento ma avrei potuto scrivere viale Montello o viale Gorizia.
Non cambiava nulla: ovunque, vernice sprecata. Sprecata perché chi percorre queste vie ignora totalmente i segnali. Compresa la vigilanza urbana: mai visto uno di loro che inviti a seguire le indicazioni. In definitiva, le ignoriamo tutti. E va bene così perché, come si dice in questi casi, quasi orgogliosi, siamo in Italia.
In Giappone è diverso. Siamo agli antipodi. I cartelli sono seguiti, ma in molte situazioni non c’è nemmeno bisogno di segnalazioni. Facciamo un esempio. Tokyo, in pieno giorno, ai lati di una strada importante. Le persone in attesa di attraversarla sono uno spettacolo. Non a caso un fenomeno tra i più fotografati. Appena scatta il verde è come se un’ondata impetuosa avanzasse. Una massa compatta e composta. Silenziosa. Potrebbe sembrare un ossimoro ma, in quella frenesia, c’è sempre ordine.
Ognuno cammina guardandosi attorno, osserva il vicino, è attento a non urtarlo né a rallentare il ritmo. Difficilmente li sentirai urlare. Sono un’orchestra. Ci tengono a esserlo, e tale si sentono. Succede in strada, in metropolitana, sui treni. Un’orchestra impegnata a non stonare.
E’ grazie a queste abitudini diffuse che si sono affermate quelle tendenze, quell’armonia, per cui i giapponesi sono noti. L’educazione, la pulizia, la puntualità, la voce bassa. In una parola, il senso civico. Noi crediamo spesso che i mali di una nazione dipendano da com’è governata. A volte penso il contrario: sono i governi che seguono le società. Rappresentandone l’espressione più autentica. Il Giappone, o per opposte ragioni l’Italia, ne sono la dimostrazione.
Non sto dicendo che i giapponesi siano senza difetti. Ad esempio, sono poco duttili. Quando subiscono un cambiamento improvviso, vanno nel panico. Un’italiana che vive là da quindici anni, sposata a un giapponese, mi spiegava che non è tanto l’incapacità di sintonizzarsi a paralizzarli. Bensì il timore di tradire qualcosa di convenuto. Un protocollo concordato con il resto della società. Che nessuno, fino a quel momento, aveva ancora messo in discussione.