Ricordi di un incontro con il Nobel peruviano Vargas Llosa, due volte ospite a Festivaletteratura
Un mese fa ci lasciava Mario Vargas Llosa. Era nato in Perù, ad Arequipa, nel 1936. Premio Nobel per la letteratura nel 2010, sedici anni prima era stato insignito del Premio Cervantes, il massimo riconoscimento per gli scrittori di lingua spagnola.
Grazie a Festivaletteratura, nel 2001 e nel 2015 Vargas Llosa (VL) è stato ospite della nostra città. La prima volta ebbi l’onore di andarlo a prendere all’aeroporto di Bologna. Proveniva da Madrid, dove passava buona parte dell’anno. In macchina la moglie Patricia si sedette dietro, da sola. Disse che era molto stanca. Dopo pochi minuti dormiva già.
VL non aveva fretta, il suo telefonino rimase muto. Il viaggio prometteva bene, per cui evitai l’autostrada. Chiese quando saremmo arrivati a Padova. Mantova non la conosceva. La confuse più volte con Padova.
All’attività di narratore VL alternava quella di pubblicista. In questa veste si occupava per lo più di politica, non solo quella spagnola. I suoi articoli, pubblicati sul quotidiano El Pais, nel nostro Paese uscivano sulla Stampa. Non avevano il taglio di chi, mentre scrive, bada alle conseguenze o pesa le convenienze. Non era il tipo che si barcamena, VL. Quando gli chiesi se conosceva qualche giornalista italiano fece subito il nome di Indro Montanelli, scomparso da poche settimane. Lo apprezzava, ed era al corrente dei dissidi sorti qualche anno prima con Silvio Berlusconi.
Ero curioso di conoscere uno scrittore che si dichiarava liberale. Era insolito trovarne anche allora. Il libro che avrebbe presentato al Festival due giorni dopo, La festa del caprone, era ispirato a Rafael Trujillo, per trent’anni padrone assoluto della Repubblica Dominicana. Uno Stato che il nostro conosceva bene, avendoci vissuto da giovane. Nel romanzo Trujillo ne usciva male, e non solo il Trujillo presidente. Ma parlar male di un dittatore reazionario, oltretutto morto da tempo, non era raro né comportava rischi. La nostra conversazione procedeva spedita, VL non mostrava reticenze. Visto il clima m’interessava capire se la condanna delle dittature, così puntuale, comprendesse tutte le dittature. Ad esempio, cosa pensava della situazione a Cuba.
Sul rapporto con l’isola caraibica c’è un episodio significativo. Negli anni Sessanta anche VL simpatizzava per le rivoluzioni che stavano infiammando l’America latina. Nel 1967, quando col romanzo La casa verde riceve il Premio Gallegos, L’Avana gli chiede di devolvere l’importo ai combattenti della guerriglia peruviana. Il rifiuto però è netto. L’Avana insiste: fa sapere che, in privato, si può trattare. L’importante sarebbe divulgare il gesto. I soldi glieli avrebbero restituiti sottobanco.
La doppiezza e il cinismo di cui VL è testimone susciterà non poca diffidenza. Come la sfiducia verso quei regimi che promettono società ideali, agitando giustizia e uguaglianza. A cominciare da quello cubano. Il culmine verrà raggiunto quattro anni più tardi. Quando il poeta Heberto Padilla, già amico e sostenitore di Fidel Castro, viene arrestato per aver criticato il suo governo. Da quel momento, per lo scrittore peruviano la natura dispotica dell’esecutivo cubano sarà un dato fattuale.
Tornando al nostro pomeriggio, VL non usò perifrasi. La condanna verso la Revoluciòn Cubana, soprattutto le conseguenze, fu netta. “Non tutti i suoi colleghi sono così drastici”, obiettai. Nel rispondermi, allargò le braccia: “Lo so. Castro gode di buona stampa”. Avrei voluto chiedergli di Garcia Marquez, se rientrava ancora tra i sostenitori del Lider Màximo. Ma sapendo del loro diverbio, lo accennai timidamente, usando il condizionale.
Feci bene, perché si limitò ad annuire. Proseguimmo a parlare del continente sudamericano. Come mai non riusciva a superare certe sue arretratezze? Anche a suo avviso la colpa era delle ricette economiche ispirate al liberismo selvaggio, secondo un’espressione allora in voga?
Anche stavolta VL non fu ambiguo: “Ma quale liberismo? Dove lo vede?”. A suo giudizio il principale freno allo sviluppo era la corruzione, presente in tutta l’area e in tutti gli strati sociali. Aggiunse che il mercato non andava imbrigliato, semmai incoraggiato. Il più possibile e quanto prima: la corruzione si annida dove il potere pubblico dilaga.
Quando gli chiesi quale fosse il leader politico preferito, non esitò a farmi il nome di Tony Blair, da quattro anni a Downing Street. Lo promuoveva perché, benché laburista, s’era dimostrato il miglior erede di Margareth Thatcher. VL era spesso a Londra. Ammirava il modello inglese e gli inglesi, in special modo Churchill e la Lady di ferro.
Il discorso scivolò poi sull’esperienza di candidato alla presidenza del Perù. Era successo undici anni prima: “Sapevo bene che la politica non era il mio mestiere. Ma tutti tergiversavano, le libertà erano in pericolo, così non mi tirai indietro”. Pentito della scelta? “Per niente. Poi s’è visto che figura fosse Fujimori”. Equando si trovò tra gli avversari suo figlio, fu imbarazzante? “Nessun disagio, perché mai? Sono un liberale, se mio figlio non condivideva le mie opinioni, aveva tutto il diritto di manifestarle e dissentire”.
Ci salutammo in piazza Sordello, convinto che l’avrei rivisto il giorno dell’evento. Ma l’indomani mi contattò. Mi chiedeva se conoscevo Sabbioneta, se distava molto. S’intuiva che le interviste letterarie, i rituali che inevitabilmente contrassegnano queste manifestazioni, gli interessavano poco. Preferiva visitare Sabbioneta. In particolare il Teatro Olimpico.
All’epoca il festival non aveva ancora la struttura assunta qualche anno dopo. Il servizio macchine non esisteva, soprattutto volevo esser sicuro che, sottraendolo agli incontri che gli editori programmano non sarebbero nate contrarietà. Anche se l’iniziativa era sua, per scrupolo mi feci ripetere la richiesta. Con la franchezza che stavo conoscendo, la confermò all’istante.
L’avrei accompagnato con la mia Fiat Marea. Ricordo ancora l’espressione di delusione dei dirigenti Einaudi, la sua casa editrice, quando - salutandoli - VL gli dava appuntamento per il mattino dopo .Li capivo, perdevano un pezzo da novanta, uno scrittore in odore di Nobel. Di certo, per lui avranno avuto ben altri programmi.
Quando arrivammo a Sabbioneta, mancava poco alla chiusura. Spiegai da dove venivamo e chi stavo accompagnando. Fortuna volle che trovai una persona non solo tollerante, ma anche disponibile a raccontarci la storia del teatro. Senza frenesia, andando ben oltre l’orario di apertura.
VL tornò a Mantova nel 2015. Cinque anni prima era finalmente arrivato il Nobel. Era il sesto scrittore sudamericano a riceverlo. Nella motivazione si parla di come abbia saputo descrivere “l’immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo”. Il 13 settembre il suo era l’evento 260, in piazza Castello, quello che chiude la manifestazione. Ad affiancarlo Ernesto Franco, che nel frattempo era diventato direttore generale dell’Einaudi. Stavolta non più deluso, a differenza di quanto era successo quattordici anni prima.