Sul Té

18 Set 2023 | Occhiovolante, Tutti gli articoli | 0 commenti

Alcuni appunti


Memo 1. Mia madre venne a San Silvestro dove eravamo sfollati. Prendi la biciclettina. Papà è tornato. Passammo a fianco dell’anello in terra battuta in Viale Te dove era parcheggiata una fila di carri armati tedeschi. Quattro terrificanti Tiger ostruivano Porta Pradella. Non ci fermarono; una crocerossina con un bambino, non eravamo Banditen. Via Corrado, 31. Mio padre dormiva un sonno brutale. Sbandato dalla ritirata dal Don del 1943, disertore, a piedi, evitando le strade. Devo tornare all’ambulatorio. Quando si sveglia, digli papà. Non fare rumore, non devono sapere che siamo qui. Dissi papà. Non era sveglio, ma mi abbracciò piangendo e riprese il sonno. Nei giorni successivi dovemmo scappare perché qualche “patriota” aveva avvisato i fascisti, ma un amico ci aveva avvertito. Passammo di nuovo davanti all’anello del Te e stavolta vidi un cavallo che trascinava una rete metallica, trottando lentamente con eleganza. Cosa fa? Pareggia il terreno, chiude le buche di quando corre forte. Papà era ancora in divisa, col fucile a tracolla; un militare in ordine con un bambino sulla canna della bici, non eravamo Banditen.
Dove dorme il cavallo? Dorme dentro Palazzo Te.
Memo 2. Nel 1945, quando tornammo in città, non potevo starci. Per raggiungere il Migliaretto inselvatichito e poi il Trincerone attraversavo il Te e mi piaceva fare il giro trottando piano immaginando cosa poteva pensare un cavallo, poi passavo per le “casette” circondato dai minacciosi ragazzi del “Tigrai” che desistevano dai loro propositi offensivi vedendo che portavo un enorme coltello – pezzo da museo – ricavato dall’elsa di una sciabola da ufficiale ussaro di Napoleone. Lo avevo trovato infisso nel muro esterno di Palazzo Te. Quando tornavo dalle mie esplorazioni extraurbane, facevo un altro giro dell’ippodromo fingendo il galoppo e pensando come un cavallo scalmanato.
Memo 3. Mio padre mi portò a vedere una corsa motociclistica che si svolgeva sull’anello d’asfalto parallelo all’ippodromo, alla quale partecipava eccezionalmente anche il vecchio Nuvolari con una moto sperimentale, ma vinse Omobono Tenni, Black Devil.
Memo 4. Quando marinavo la scuola, molto spesso, Il preside Camosci, gran brav’uomo, persona buona e mite, veniva a rastrellarci per riportarci tra i banchi. Ci nascondevamo tra i rami dei platani di viale Te. Avevo inciso sulla corteccia di un platano il nome di una bellezza delle scuole magistrali. Mi arrampicavo su quello.
Memo 5. Il custode del Martelli, l’ottimo Reggiani, finto severo, ci faceva entrare a qualunque ora nello stadio – ma non sporcate, però – per allenarci sulla pista in carbonella per l’atletica leggera, ormai ridotta a un polverino appiccicoso. Se pioveva, il campo era chiuso. Allora, sul prato dell’ippodromo, lanciavo il disco a casaccio. L’erba del prato era così alta che giocavamo a nascondino coricandoci a terra, poi seccava trasformandosi in lurida poltiglia. Alcuni sognavano che sarebbe stato bello mettere in ordine quel terreno, inagibile e brullo, una landa, ma molto frequentato dagli abitanti di Viale Risorgimento e quartieri limitrofi dove erano sorti popolosi condomini dopo l’interramento delle mura antiche, una canagliata. Io sognavo una pista di pattinaggio come Piazza Ariostea a Ferrara. Non c’era alcuna manutenzione, il taglio dell’erba solo sul campo di calcio sussidiario.
Era meglio lasciare la landa, magari prevedendo che tra duecent’anni il cambiamento climatico darà dei problemi di gestione? Forse ripristinare le corse al trotto per continuità culturale con l’affresco dei cavalli gonzagheschi?
Memo 6. Andammo ad abitare in uno di quei condomini, e ogni sera – ogni sera – con altri amici si pattinava sull’asfalto di Viale Isonzo a fianco dell’ippodromo, anticipando il traffico pesante dei TIR che usavano il viale come tangenziale dopo le 21. Di notte, il Te buio era terra di nessuno, ma al mattino presto, mamme che spingevano carrozzine, bambini lasciati liberi di scorrazzare, nonni coi nipotini, e vecchi che cercavano di sgranchirsi facendo un giro, capannelli di tifosi che commentavano l’ultima partita, cagnolini frenetici in cerca di un’usta, e chi trottava intorno, il venditore di ceci e lupini salati in un cono di carta gialla.
Mancai per un periodo di servizio militare prolungato, ma quando tornai era tutto uguale. Sedevo Valentina sul collo e facevo un paio di giri camminando veloce e lei urlava Johnson boia giù le mani dal Vietnam. La gente applaudiva ridendo. All’epoca tenevo barba e baffi in omaggio al Che. D’inverno, l’anello era di fango, eppure vedevo gente seduta sul fazzoletto.
Giorgio Di Genova, noto critico d’arte romano, mio ospite con la pittrice Liliana Petrovic, fece un giro tenendo Valentina in braccio. Disse che i Mantovani erano fortunati ad avere un posto libero come quello alle porte della città. Gli spiegai che da sempre, noi dicevamo (in dialetto) ci vediamo “sul” Te, cioè un punto noto a chiunque, segnalato, uno dei luoghi deputati della città, ma abbandonato all’evoluzione naturale del terreno che tuttavia conservava un ottimo drenaggio per cui non c’erano mai pozzanghere. Ci andavamo con ogni stagione.
Memo 7. Sul Te non c’erano balordi di sorta, ma giochi di bimbi scatenati, noi renitenti alla scuola, partitelle di calcio, qualche ciclista e chiacchiere. La mia stanza in viale Risorgimento n. 40 dava sul Te. La richiesta della cittadinanza di fruizione dell’ex ippodromo poteva essere evidente per chiunque, ma le varie amministrazioni non l’hanno mai considerata. L’ho osservato per vari decenni. Non mi pare che “il Te” sia stato cancellato, ma finalmente rivitalizzato dopo una interminabile agonia.
Memo 8. Avrei preferito una cosa meno raffinata, più rustica. Nelle piazzole avrei messo qualche importante scultura. Se guardo la mappa di Mantova di Bertazzolo, 1628, vedo che dirimpetto a Palazzo Te c’erano filari di alberi, forse pioppi, allineati sulla verticale delle Peschiere, dunque l’attuale impiego come passeggiata dirimpettaia è corretto. Benedetti gli alberelli alloggiati, non vedo l’ora che crescano rigogliosi (i detrattori sfoggeranno sottile competenza sull’arte topiaria quando gli alberi saranno da potare lamentando mancanza di servizi che non ci sono neppure al Bois de Boulogne a Parigi).
Preferivo il primo progetto dove la definizione culturale del disegno paesaggistico è più evidente. Da sempre a Mantova, dato storico, per qualunque cosa, se vi sono due possibilità disponibili, si sceglie la peggiore, mediana, ma finalmente quel terreno è coerente all’impianto cittadino. Non è un esproprio, come vorrebbe il peregrino “Comitato del NO”, bensì è una restituzione, una evoluzione civile attesa da tanto tempo.
Memo 9. Chi sostiene che l’ambiziosa ristrutturazione -finalmente un progresso sull’abituale meschinità progettuale di questa città- non ha relazione culturale con l’adiacenza monumentale, è in malafede o più probabilmente, non ha capito nulla. Non vede, per difetto culturale, che la pianta del parco disegna una successione di cerchi tangenti legati in chiave da una fascia. Questo è un noto motivo decorativo mantegnesco, un logo grafico che spesso designa la nostra città.
Le fontane sono una memoria dell’acqua che circondava l’isola del Tejeto. Anche Giulio Romano progettava fontane luminose colorate, e giochi d’acqua, è risaputo. I giochi fissi rammemorano la destinazione di svago e lieti incontri cui era destinata la villa rinascimentale.
Non è Disneyland, mi credano, signor Rettore e comitatini politicanti negativi pre-elettorali, magari spettegolando se sia “una corte-giardino, non un parco” (non capisco l’utilità del distinguo, se prima era un’area incolta). L’opera di Giulio è una “villa” o un “palazzo”?
Memo 10. Nel 1906, nello spazio interno all’ippodromo aveva sostato il circo di Buffalo Bill che fuggì subito a Verona perché i Mantovani pagavano poco. Mio nonno paterno, che m’istruiva al dialetto mantovano originale, raccontava che suo padre un giorno gli disse: A sun pasà in s’al Te e gh’era Verum ch’al fasèva istrument, sibèn ch’a ghera la fumana (sono passato dal Te e c’era Verme che si allenava sebbene ci fosse la nebbia). Francesco Verri, mantovano, ciclista velocista campione olimpico e campione del mondo. All’inizio del secolo XX, il Te era anche un velodromo. Il nastro in solido ne ricalca il tracciato. Fatevi un giro.

Renzo Margonari

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